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20/03/2023 - Tieffe

Nadia Lauricella, l’Ironwoman siciliana

Focomelica dalla nascita, è promotrice di progetti sulla disabilità ed una seguitissima influencer

“Dovete sapere che esiste una teoria, che non è nostra, ma che abbiamo fatto nostra, in base alla quale le persone con disabilità si dividono fra rancorosi e solari. I primi sono quelli arrabbiati col mondo per quello che gli è successo, i secondi sono quelli che hanno deciso di viverla come una nuova opportunità.”

Bebe Vio

Nadia, la forza di volontà che abbatte ogni barriera

Sicuramente Nadia Lauricella 30 anni ad ottobre, di Racalmuto, in provincia di Agrigento è un esempio di come la disabilità possa essere una condizione che ti porta a dare il meglio per te stesso e per gli altri. Focomelica, è nata senza braccia e con le gambe solo parzialmente sviluppate, che usa per compiere la maggior parte delle attività quotidiane: lei questa condizione ha saputo e voluto trasformarla in una ferrea determinazione a vivere la vita appieno e a far conoscere la sua esperienza ad altri. Talmente ferrea da farle scegliere come nickname “Ironadia”.
Nessun giudizio l’ha fermata, nonostante viva in un piccolo centro, e la sua battaglia contro l’abilismo (la discriminazione nei confronti delle persone con disabilità), l’ha portata ad avere oltre 50mila followers su Instagram e quasi 800mila su TikTok.
“Per me i social sono uno strumento per attuare la mia piccola rivoluzione culturale”, dice. Lo sport? “Un sogno realizzato”.
Nadia, infatti, oggi è vicepresidente dell’associazione no-profit MotorLife, che promuove la mototerapia per bambini e ragazzi disabili.

Proprio da qui partiamo con la nostra intervista. Può spiegarci in cosa consiste la mototerapia e come può aiutare i ragazzi disabili ad “accettarsi ed amarsi, come chiave per superare tutti gli ostacoli”?

Mi sono appassionata al mondo del motocross vedendo i video di Vanni Oddera, ex campione mondiale di freestyle e ideatore della mototerapia. Appena ho scoperto che c’era un modo, per me, per poter praticare il motocross l’ho fatto e mi sono sentita, per la prima volta, libera, come se avessi annullato ogni disabilità.Andare in motocicletta è adrenalina e gioia allo stato puro che nel caso dell’autismo diventa una terapia a tutti gli effetti, perché consente di scaricare la tensione. Una volta appurato quanto fosse fonte di benessere per me, mi sono impegnata perché altri ragazzi con disabilità potessero provare queste emozioni e questa energia e così ho fondato l’Associazione MotorLife, di cui sono vicepresidente (presidente è Rosario Farruggia, ndr), grazie alla quale riusciamo a far praticare questo sporta diversi ragazzi disabili nel Sud Italia.

Cosa ha rappresentato e cosa rappresenta per lei lo sport?

È stata la fonte della mia rinascita. Fino a 24 anni mi sono sentita dire che tante cose, a causa della mia disabilità, non potevo farle. Quindi quando ho iniziato a praticare sport, per me è stata una rivincita nei confronti di tutti quei no che avevo ricevuto sino ad allora. Dal punto di vista fisico e psicologico mi consente di staccare da tutto: siamo solo io ed il personal trainer, in un percorso che porta a uno stato di vigore e salute. Mi piacerebbe che questo messaggio fosse compreso da tutte le palestre italiane, ossia che molti disabili hanno bisogno di sport. E non necessitiamo, almeno la maggior parte di noi, di particolari attrezzature, ma solo di una persona ci segua e ci faccia fare gli esercizi giusti.

Tornando all’altra sua attività, come i social la stanno aiutando a farsi portavoce della disabilità come unicità?

Provengo da un piccolo paese della Sicilia, dove sono cresciuta in mezzo a mille pregiudizi. Le persone vedevano solo il mio aspetto fisico e lì si fermavano. In pochi cercavano di capire chi fosse davvero Nadia. Quando ho messo le protesi ho scelto di raccontare la mia esperienza ed il periodo della riabilitazione per contribuire a far comprendere ad altri ragazzi con disabilità non solo come affrontare certe sfide in maniera propositiva, ma anche come liberarsi delle etichette che la gente, inevitabilmente, ti affibbia. Dietro ogni persona c’è un essere umano, con la sua forza, le sue fragilità, i suoi gusti: una persona che merita di essere conosciuta. Questo voglio dire con i miei messaggi, dare un punto di vista diverso sulla disabilità e infondere, a modo mio, un po’ di forza a chi vive i miei stessi problemi. Da qui il mio nickname IronNadia. Tengo a dire che non mi sento un supereroe, ma sono felice che, grazie anche ai social, le persone abbiano iniziato a vedere la vera me, che siano andate oltre la disabilità e spero riescano a farlo con tutte le persone disabili che incontreranno.

Hanno realizzato un docufilm sulla sua vita, ce ne vuole parlare?

Si intitola “Alza il volume”, è stato ideato da Angelo Jay Pecoraro. Per me è stato emozionante veder raccontata la mia storia, perché non ti accorgi di quello che fai, dei traguardi che raggiungi, finché non sono gli altri a mostrarteli. Ci tengo a dire oggi non sarei quella che sono senza le persone che mi hanno accompagnata in questo cammino: la mia famiglia ed i miei amici più cari. Ognuno di loro mi ha aiutato ad essere la Nadia di oggi, ed ha segnato questo mio percorso di rinascita e consapevolezza. A loro va il mio incondizionato grazie!

Qual è stata la sfida più grande che ha dovuto affrontare?

Camminare a 24 anni. Ero un’adulta e reimpostare la mia mente e il mio corpo a compiere quei movimenti è stato davvero difficile. Mi sono sentita come Dumbo: avevo bisogno di una piuma magica per camminare, che per me era il sostegno di qualcuno. Ma quando mi sono accorta che il sostegno non serviva più allora anche io ho iniziato a volare…

Lei spesso racconta di quanto sia stato difficile vivere la sua condizione in un paesino del Sud Italia. Non crede, però, che le persone che vivono nei piccoli centri alla fine non si pongano, nel bene o nel male, in maniera indifferente nei confronti di componenti della loro comunità?

Nel mio caso, purtroppo, non è stato così. Mi spiego: a volte sarebbe stata meglio l’indifferenza, rispetto a quello che ho dovuto subire, al sentirmi sempre diversa, emarginata. Devo dire grazie alla scuola, un ambiente che mi ha sostenuta e incoraggiata, ma non alla comunità che è stata solo capace di dirmi tanti no e di mostrarmi unicamente i miei limiti, convincendomi che fosse impossibile superarli.

Lei è anche molto attiva con istituzioni, tecnici e progettisti, nell’abbattimento delle barriere architettoniche e nelle politiche sociali. Può spiegarci meglio in cosa consiste questo impegno?

Credo che ognuno debba avere un ruolo attivo nella propria realtà: solo così si possono avvicinare le istituzioni alle necessità reali dei cittadini, specialmente in tema di disabilità. Per un disabile a volte un gradino è un problema, una strada con delle buche, la carenza di semafori con segnalazioni acustiche… Quindi è dovere di ogni cittadino impegnarsi affinché si arrivi ad una società davvero inclusiva, dove le necessità di tutti vengano prese in considerazione da parte di chi si occupa di urbanistica, architettura e politiche sociali.

Quali sono le barriere insormontabili, ancora oggi, di cui è vittima il nostro Paese, soprattutto in ambienti necessari ed al contempo più difficili da vivere come gli ambienti bagno?

Purtroppo, gli ambienti bagno sono quelli dove ancora permangono le barriere più difficili da abbattere come lavandini eccessivamente alti, specchi posizionati in modo che ci si può specchiare solo in posizione eretta, erogatori di sapone ed aria calda lontani dai rubinetti, docce che non consentono di entrare in carrozzina. Per non parlare di gradini, posizionati ovunque. Nell’architettura d’interni di strutture ricettive, ambienti ad alto traffico di persone, come le stazioni, i bar e i ristoranti l’allestimento degli ambienti bagno andrebbe totalmente rivisto. Allo stato attuale a volte risultano poco sicuri e fruibili anche a persone normo-dotate, figuriamoci per chi ha una disabilità.

Quando viaggia, ad esempio, quali sono i disagi principali che incontra?

Fortunatamente viaggio sempre accompagnata, altrimenti non so se “sopravviverei” a buche, strade sconnesse e infinità di scale. Spesso mi muovo in carrozzina e la mobilità, in questo caso non migliora, anzi a volte peggiora.Finché non ci sarà una vera rivoluzione della concezione della manutenzione delle strade e dei marciapiedi e di riorganizzazione degli spazi interni per un disabile sarà sempre complesso viaggiare.

Oltre a tutte queste cose che fa, lavora anche e organizza eventi. Cosa consiglierebbe a una persona giovane e con una diversa abilità per vivere appieno la sua vita?

Imparare a chiedere aiuto: questo è il segreto. Senza sentirsi a disagio, perché per le persone che si hanno accanto è naturale essere d’aiuto e sono contente di poterlo fare. Soprattutto non vergognarsi della propria disabilità perché non è una colpa… Se queste due condizioni risultano estremamente difficili da raggiungere consiglio, soprattutto ai giovani, di cercare un’assistenza psicologica: è essenziale prendere coscienza di sé stessi e dei propri limiti prima possibile, in modo da accettarsi e comprendere come lavorare al superamento di alcuni freni che spesso sono più mentali che fisici. Infine, ricordarsi che, come ha detto Khalil Gibran, “Non si può raggiungere l'alba senza passare dai sentieri della notte”.


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